Pubblicato su politicadomani Num 90 - Aprile 2009

Democrazia a rischio
L'informazione blindata

Pochi grandi gruppi di imprenditori non editori, editori pesantemente condizionati dai contributi statali, giornalisti sempre più precari. Sono questi i mali più gravi dell'informazione in Italia

di Maria Mezzina

- Francesco Gaetano Caltagirone, costruttore edile (gruppi Caltagirone, Vianini, Cementir, con interessi in Italia e all'estero);
- Silvio Berlusconi, Presidente del Consiglio (patron di Fininvest, controlla Mondaori e Publitalia, il terzo uomo più ricco d'Italia, il novantesimo più ricco del mondo, secondo Forbes);
- Cesare Geronzi, banchiere (Presidente di Mediobanca);
- Carlo De Benedetti, plurimprenditore (autoveicoli, Fiat; computer, Olivetti; editoria, L'Espresso), finanziere (Banco Ambrosiano), politico (centro sinistra);
- Emma Marcegaglia, imprenditrice (Presidente di Confindustria).
È nelle mani di questo gruppuscolo di cinque, che controllano un impero finanziario (e politico) che ben poco ha a che vedere con il mondo della informazione, il 73,1% del fatturato della carta stampata, pari a 4,9 miliardi di euro.
Nel campo delle comunicazioni altro grande editore "occulto" - come lo chiama Altreconomia nell'inchiesta pubblicata nel numero di febbraio 2009 a firma di Giulio Sensi (pp.16-19) - è la pubblicità.
Un giro di affari di 23 miliardi di euro pari all'1,41% del Pil (i dati si riferiscono al 2007) e a 151 euro per abitante. Una cifra che è destinata a crescere visto che in Francia se ne spendono 162, in Germania 210, nel regno Unito 304 e negli Stati Uniti 402. Una torta enorme di cui una fetta pari a quasi 9 miliardi netti di euro va ai mezzi di comunicazione: 4,7 miliardi alla Tv, 3,2 miliardi ai giornali, 470 milioni alle radio, 281 milioni per internet, 70 milioni ai cinema, 2200 milioni in affissioni.
È la televisione a fare la parte del leone con quel 93,2% di popolazione sopra gli 11 anni che la guarda regolarmente e quel 75% che si informa dai telegiornali.
Qui a spartirsi la torta sono solo in due: Mediaset e la Rai.
E qui sta la cosiddetta "anomalia italiana" e la minaccia più grave per la democrazia italiana, perché Mediaset è controllata da Berlusconi e la Rai è controllata dal Governo, che è controllato da Berlusconi.
Forse semplifichiamo, ma è un fatto che da quando è diventato legge il Testo unico sulla radiotelevisione il 31 luglio 2005 (seconda legge Gasparri del III Governo Berlusconi) che ha istituito il Sic (Sistema integrato delle comunicazioni), Fininvest e Publitalia - la sua potentissima concessionaria di pubblicità controllata anch'essa da Berlusconi - hanno potuto occupare quasi tutti gli spazi pubblicitari televisivi. E così, anomalia nella anomalia, Mediaset,con il 40,5% di ascolti raccoglie il 64,6% della pubblicità e la Rai con il 41,8% di ascolti ne raccoglie solo il 29,1%. Mentre a La7 e ad MTV vanno solo le briciole, precisa Sensi. La sproporzione dipende dal fatto che la Rai, che riceve il canone ed è un servizio pubblico, può mandare in onda il 4% orario in pubblicità e Mediaset, che è commerciale (azienda tuttavia in passivo, considerati i -4,08 miliardi di euro di fatturato del 2007) può mandarne il 16% giornaliero e arrivare al 18% orario purché recuperi l'ora successiva.
La stampa ricava sempre di meno dalla pubblicità: nel 2000 riusciva a coprire il 58% del fatturato, oggi, invece, ricava solo il 45% secondo la Fieg (Federazione italiana editori di giornali), il 49,7% secondo l'Agcom (Autorità per le garanzie nelle comunicazioni). Questo significa in sostanza che si riduce il numero dei giornalisti stabili e aumentano i precari (i precari del giornalismo ogni anno crescono quattro volte di più rispetto ai giornalisti stabili: + 9,27% precari e + 22,6% stabili rispetto al 2007 e rispetto al 2006 +12,46% precari e +3,96% stabili); diminuiscono le spese collegate all'esercizio della professione (trasferte, rimborsi, documentazione di archivio e fotografiche) e si riducono gli spazi di libertà dei giornalisti sui quali pende sempre la minaccia della disoccupazione e della sottoccupazione.
Ma non è solo questione di soldi.
Gli editori fanno e sono interessati ad altro. Il giornale, che non serve neanche a far soldi, diventa solo uno strumento per avere visibilità, una sorta di personale tribuna a cui fa da corte una massa di giornalisti precari e non, e apprendisti tali.
Anche le garanzie a tutela del pluralismo dell'informazione sancite nella Costituzione, che prevede provvidenze e contributi statali all'editoria, per l'enormità delle somme date alle grandi testate e, viceversa, per l'esiguità delle stesse e per la difficoltà di percepirle da parte delle testate più piccole e più libere, diventano strumento di pressione e di condizionamento. Molti editori che sono tali per mestiere e per vocazione esistono solo grazie ai contributi statali; come potrebbero, quindi, opporsi al governo?

 

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